1)
Sono una nave libica migrante
in rotta,
la sembro e vedo mentre mi parlano
qui dentro il tram serale,
code di cavallo rinverdite da mèches
e mi scuotono, davanti
ai gesti che parlano nel tram;
e i tram corrono circolarmente
su circonvallazioni eterne
di periferia.
Ero una vita in tram, ero una donna
in treno, e troppe vite
insanamente, e chi spezzate chi incapaci
a parlarsi, sordo mute.
Ero una nave libica sferzata,
ogni giorno e ogni notte a viaggiare
rifuggendo – e poi morire.
fiato di molle rabbia, ragionate storture
dei frutti del controllo sulle vite
trattate,
e poi vendute come la mia, migrante.
2)
Ora vedo
di già rinchiudersi la voce sulle mie mani piene,
piccole foci di scrittura protese
su le silenziose.
per una vita di periferico abbandono,
io tradotta – di melma e nulla
sgranata forma del mio nulla,
e della cenere di ognuna che non guarisce,
le stelline della sconfitta e della fame,
chiuse in bocca
come negli scafisti la moneta
derubata la notte prima ai morituri,
si chiude il rapido segreto.
3)
Sembro una nave già affondata,
da anni senza più pensiero senza
sue parole, senza il suo cuore fluido
e accattivato, nero
incattivito senza un piano bar,
una musica un silenzio dove
nelle formate storie riprodurre il senso
suono della vita.